Comunione e Liberazione – incontro di inizio anno

Lunedì 23 ottobre 2000, centro congressi Papa Luciani – Padova

canti: Este es el dia / A new creation / Como busca

don Giacomo Tantardini

Ascoltiamo il canto dell’Ave Maria. Com’è grande e bello il cuore del bambino, come abbiamo cantato adesso, e com’è molto più grande, infinitamente più grande e infinitamente più bello il cuore dell’uomo grande che rimane bambino. Perché il primo è il miracolo della creazione, il secondo è ancora più potente, è il miracolo della ri-creazione, dello Spirito che ricrea. Chiediamolo alla Madonna. Man mano che passava il tempo, il suo cuore era sempre più bambino, sempre più stupito, era sempre più grato, era sempre più cuore. Chiediamo che sia così anche per noi, che il tempo che passa renda il nostro cuore sempre più cuore.

canto: Ave Maria di Da Victoria

Veni sancte Spiritus. Veni per Mariam.

L’ultimo libro di Giussani, “L’autocoscienza del cosmo”, il quarto volume di queste Quasi Tischreden, è realmente la possibilità, come dice la prima pagina, di essere «come un bambino che corre dietro alle lucciole per prenderle in mano». È proprio un insieme di «tante facelle», per usare l’espressione di Leopardi, di tante luci, di tante piccole stelle, come una sera stellata. Insisto su quest’immagine delle lucciole, delle scintille (come dice qui) soprattutto perché per un libro così non è tanto la logica che deve essere cercata. Non che non ci sia una logica nei singoli brani, ma è proprio l’essere bambino, come dice uno dei capitoli, è questo essere bambino che può trovare suggerimenti, riscontri, scintille di stupore di commozione, di intelligenza delle cose, di intelligenza della vita. Deve essere proprio letto così questo libro. E per aiutare questo, questa sera innanzitutto vi rileggo, tra le tante che mi hanno colpito, le tre frasi che immediatamente mi hanno colpito come un suggerimento di lettura che può accompagnare tutto quest’anno.

La prima è una piccola frase a pagina 39. Certe volte le parentesi possono essere più importanti che non tutto il discorso che viene fatto. A un certo punto dice: «Cara beltà. In quel titolo Cara beltà c’è dentro tutto, non lascia fuori assolutamente nulla». La prima cosa è l’essere bambini. Il bambino quando guarda le cose innanzitutto vive questa attrattiva e questo stupore creaturale: le cose sono belle, la vita è bella. Per il bambino la vita è bella e le cose sono belle. Tant’è vero che nel titolo stesso si parla di cosmo. Cosmo vuol dire che le cose sono al loro posto, che le cose sono in armonia, che le cose sono una trama di bellezza. Cara beltà. La vita originalmente è una cosa bella e cara, vicina. Questo titolo dice tutto. Cara beltà: vita vuol dire il bimbo che nasce o il bimbo concepito, vuol dire anche gli anni che passano e la vecchiaia in cui ci si inoltra, ma la vita è bella. La vita è bella e cara, questo mondo è bello, la creazione è bella. “Omnis creatura bona” dice san Paolo nella Lettera a Timoteo. Ogni cosa creata è buona. E non so se il termine greco che qui è tradotto con “bene” sia kalòs, cioè proprio “bello”. Molte volte il termine greco che in italiano si traduce “buono”, per esempio riferito al buon pastore, si dovrebbe letteralmente tradurre “bello” e quindi “il bel pastore”, perché kalòs è il termine della bellezza. Insomma: ogni cosa, ogni creatura è bella. E questo secondo me è come un sentimento che la fede cristiana rende potente e quindi è una simpatia, è uno sguardo di simpatia verso l’uomo, verso l’umano, verso le cose della vita. Il cristiano non ha rancore verso le cose della vita.

Cara beltà: il Paradiso terrestre è tutto definito da queste due parole. Sto intuendo adesso perché i Padri della Chiesa parlino tanto di quei versetti (in fondo pochi) della Bibbia in cui si parla del Paradiso terrestre, perché parlino tanto di quella condizione, la condizione di Adamo ed Eva prima del peccato. Perché è la descrizione di questa cosa bella, di questa cosa veramente bella in cui ogni cosa lascia trasparire il Tu che in quel momento la crea, ogni cosa la lascia intravvedere, la rende vicina, rende vicina quella bellezza infinita che adesso sta creando, che adesso in quest’istante sta creando me e sta creando voi. Cara beltà.

Seconda cosa, seconda frase che mi ha colpito: io qui parlo di tre frasi che mi hanno colpito, che mi colpiscono in questo momento. È a pagina 59. «È un dato di fatto che se tu guardi la realtà dall’immaginato tuo aprirsi originale degli occhi» (qui Giussani accenna a quel paragone che fa sempre: ammettete, pensate di uscire dal ventre di vostra madre con la coscienza di vent’anni…) «quando uno esce con gli occhi aperti, se uscisse con la coscienza grande, vede nubi e mare». Il primo impatto è un’attrattiva: la vita è bella. Non ho paura di dire che secondo me “La vita è bella” di Benigni è l’unico film cristiano che io abbia visto. Film potentemente religiosi ce ne sono tanti, basti pensare al “Dies Irae” di Dreyer, ma film così cristiani… è l’unico che io abbia visto. Anche “Marcellino pane e vino”: ma non è così cristiano. In fondo in “Marcellino pane e vino” c’è come un orizzonte ultimo di nostalgia, invece in Benigni mi sembra solo cristianesimo.

Il primo impatto quindi è un’attrattiva che immediatamente tende a degradare in estraneità, e questo è il peccato originale. Tutto, tutto questo libro (tant’è vero che il primo capitolo è «il punto di vista»), tutto questo libro è sotteso da questa constatazione: che quella attrattiva, quella cara (cara vuol dire vicina, familiare) bellezza immediatamente tende a diventare – dirà in un altro punto – ansia e rabbia, nervosismo e rabbia. Immediatamente tende a degradare in estraneità, come uno nel deserto che vedendo venire un uomo si riempie tutto di speranza, tende la mano e quello se ne va. La speranza degrada in estraneità. L’estraneità è l’inizio della morte, è l’assassinio, e questa immagine descrive la condizione reale, perché il Paradiso terrestre è stato perduto e l’uomo è stato cacciato dal Paradiso terrestre.

Ieri ero in un paesino tra Napoli e Caserta. Mi hanno invitato delle persone di Cl che conosco a presentare questo libro a una piccola comunità – sono circa una cinquantina di persone. Tra le altre cose ho letto anche questa frase. Sono stato colpito dal fatto che la persona che con me presentava la cosa, il responsabile della comunità, alla fine ha detto, citando questa frase: «Ma noi, grazie a Dio, non siamo più in questa condizione». E invece non è vero, non è vero, non è assolutamente vero. Primo: se è vero che il battesimo perdona il peccato originale, le conseguenze del peccato originale, come insiste Giussani, rimangono. Secondo: perché la condizione di grazia in cui siamo è precaria. È addirittura dogma di fede che ogni peccato mortale fa perdere quella condizione. Quindi anche noi siamo in questa condizione e paradossalmente ne abbiamo una coscienza e quindi anche una drammaticità più grande. Anche noi siamo in questa condizione. Anche per noi la realtà tende a degradarsi in estraneità. Anche per noi l’estraneità è l’inizio della morte, dell’assassinio, anche per noi.

Terza frase: «Perché nulla di ciò che è umano ci è estraneo, nulla». (Una delle pagine più belle del libro è quando don Giussani fa il paragone tra chi domanda lo Spirito per conoscere Gesù e chi non sa chi è Gesù e quindi non sa neppure domandare lo Spirito, però rimane aperto in attesa come un bambino. E dice che queste due posizioni sono identiche). La terza frase è a pagina 188: «Perché quell’attrattiva degrada in estraneità?». Abbiamo detto: per il peccato originale. Ma a pagina 188 c’è una definizione del peccato originale proprio bella, la più bella che io abbia letto: «L’orgoglio ha portato il male nel mondo (il peccato originale è un peccato di orgoglio), ma che cos’è l’orgoglio? Che cos’è il peccato originale di Adamo e di Eva? E quindi che cos’è la condizione in cui noi viviamo? Perché il peccato originale di Adamo ed Eva è diventato la pena che noi subiamo. L’orgoglio è l’affermazione di sé prima che della realtà». È una cosa dell’altro mondo, sia come verità – una verità che è da sempre dopo il peccato originale – ma soprattutto come giudizio sulla condizione umana di oggi, come giudizio sulla malattia, quindi sulla non sanità umana di oggi: è l’affermazione di sé prima che della realtà. È lo sguardo ripiegato e poi fissato su di sé e non più come quello del bambino che guarda la realtà. Non ho mai letto una definizione così potente, così attuale del peccato originale e della pena del peccato originale. L’affermazione di sé come sguardo che tende a diventare fissazione: pensate a tutte le malattie in cui l’uomo di oggi così facilmente degrada. Affermazione di sé prima che della realtà. E poi aggiunge: «Perché invece è guardando che si diventa grandi, che l’uomo diventa grande, diventa maturo, insomma si matura». Questi sono i tre suggerimenti, le tre cose che immediatamente mi hanno colpito.

Dico altre due cose. Allora: l’uomo vive questa condizione di affermare sé prima della realtà. Ma facendo così non afferma sé. Il filo che percorre tutto questo libro è che la realtà, l’impatto con la realtà, con le cose che accadono, con le cose che ci circondano fa scoprire le domande del cuore, fa scoprire ciò che il cuore attende. Quindi se uno invece guarda sé, non coglie neppure ciò che il cuore attende, perché invece è guardando le cose che accadono che emerge il cuore, che emerge l’attesa del cuore. Questa è una delle cose più importanti, è come un ritornello che attraversa tutto il libro: guardando la realtà, nell’impatto con la realtà! Ma se l’uomo è così ripiegato su di sé, la realtà – invece che cara bellezza – diventa ansia, nervosismo e rabbia. Sono bellissime queste due cose, nervosismo e rabbia, descrivono proprio bene la realtà: l’io diventa ansia e nervosismo e le cose, dice Giussani, diventano rabbia, l’impatto con le cose diventa rabbia. Se quindi l’uomo è così ripiegato su di sé, occorre qualcosa d’altro che non è l’io, che non è il cuore, che non è il senso religioso (per usare il termine che esprime la sintesi dell’io umano, la sintesi dello spirito umano) occorre qualcosa d’altro per far alzare la testa. Questo qualcosa d’altro lo chiamiamo avvenimento cristiano.

Occorre sempre qualcosa d’altro. Qui vi leggo due brani di Giussani alla fine di giugno al consiglio nazionale di Comunione e Liberazione, quando innanzitutto diceva «la cosa più bella che oggi mi avete fatto vedere quasi toccando il fondo, l’unica parola che può chiarire la strada che bisogna percorrere e quello dobbiamo portarvi è la parola avvenimento». È l’unica parola che può chiarire, che può far alzare la testa (chiarire significa alzare la tasta, alzare lo sguardo), che può chiarire la strada che dobbiamo percorrere, perché se uno è ripiegato su di sé non vede la strada. «Vedevo solo me», come dice il canto “Marta Marta”: «vedevo solo me». E allora uno si può anche indaffarare in mille cose e ripetere mille parole, ma non esce dal cerchio chiuso di vedere solo sé. L’unica cosa che fa alzare lo sguardo è la parola avvenimento. E poi dice ancora: «Non si tratta di “fare l’unità”, fare l’unità tra noi o fare l’unità col nostro cuore». Com’è importante l’unità col proprio cuore e com’è difficile, difficile quanto l’unità tra gli uomini. Com’è miracolo l’unità col proprio cuore, com’è miracolo. Se un’altra cosa non fa compagnia, a poco a poco si forma come una patina, magari sottile, di estraneità col proprio cuore. Forse una delle cose più belle che Giussani ha detto – e mi sono commosso quando quindici giorni fa la leggevo con quelli del gruppo adulto – è quando Giussani dice che c’è una vocazione nella Chiesa che in sé è fatta per non vivere di questa patina di estraneità e di questo ostacolo, cioè la verginità. Ma questo in quella vocazione è solo più facile come testimonianza per tutti, è solo più facile, ma come offerta di carità per tutti.

Pensate come doveva essere unito il cuore di padre Leopoldo quando qualcuno andava ad inginocchiarsi, come quell’unità si riverberava su quelli che si inginocchiavano a chiedere perdono dei loro peccati. Non si tratta di fare l’unità ma di accoglierci e di accogliere qualcosa, quello che è accaduto e quello che accade. Così il cuore diventa unito. Si tratta di accoglierci e di accogliere qualcosa, quello che è accaduto e quello che accade. Quello che accade è quello che è accaduto. Quello che accade tra noi e quello che è accaduto. Come mi ha proprio stupito e aiutato la telefonata di don Lucio qualche giorno fa, quando mi ha detto che il venerdì avevate recitato il Santo Rosario e che era stata una cosa molto bella. E al parroco di quella chiesa che gli chiedeva di questa preghiera, lui ha accennato che soprattutto dopo il fatto del sei gennaio, ormai di tre anni fa se non sbaglio, dopo quel fatto era stato più semplice, più familiare il gesto e la dimensione della preghiera. Mi ha colpito tantissimo, perché per me è stata una riscoperta di una cosa che magari (anzi, senza magari) in quei giorni non vivevo con la stessa semplicità e la stessa grazia rispetto a due o tre anni fa. Ma quello che accade, quella telefonata, per me è stata una cosa che è accaduta ed è stata una correzione e una promessa di speranza. Si tratta di accogliere quello che accade. «Infatti quello che accade, quello che è accaduto porta un nome, un nome che è il nome del Signore, Signore lo chiama il linguaggio biblico, porta un nome: Gesù». Allora è un avvenimento che fa alzare la testa, è un avvenimento che rende il cuore cuore ed è un avvenimento che è accaduto duemila anni fa, che è accaduto nel battesimo e nel primo incontro per noi: è accaduto e accade.

Ultima cosa. Quest’avvenimento o questo cuore rende possibile l’imitazione del Mistero di Dio, cioè rende possibile la misericordia. E questo è il contenuto più diffuso del saluto che Giussani ha fatto all’inizio anno a Milano. Questo avvenimento, quello che accade, quello che è accaduto rende possibile imitare il mistero, cioè rende possibile la misericordia. «La parola in cui si definisce cos’è il mistero di Dio in Gesù è misericordia». E poi continua Giussani con queste due frasi insieme che mi hanno tanto colpito: «Per questo Dio ci dà il tempo, perché la sua grazia fruttifichi nella libertà dell’uomo». Il mistero è misericordia: per questo ci dà il tempo, per questo, perché la sua grazia fruttifichi nella libertà dell’uomo. E come se avesse intuito che la misericordia nella parabola del figliol prodigo è come molto di più in quei lunghi anni in cui il padre ha atteso con speranza che non quando è corso incontro al figlio e lo ha abbracciato. È come più divina quell’attesa, perché – in fondo – quando il figlio ritorna, corrergli incontro e abbracciarlo è come la cosa più umana, più comprensibile. Ma che l’abbia atteso tutti quegli anni con la speranza che ritornasse, questa è una cosa… solo il Mistero può essere così. È più divina quella cosa, la misericordia. «Per questo Dio ci dà il tempo, perché la sua grazia fruttifichi nella libertà dell’uomo» ed è Suo il tempo. Fruttifica nel Suo tempo e nessuno può pretendere nulla. Ci dà il tempo. «La misericordia come vera imitazione di Gesù è sguardo del mistero». Sguardo quindi: l’attesa di quegli anni e l’abbraccio. E anche il fatto di aver distribuito le sostanze e di averlo lasciato andare: non si può fare un gesto così se non nella speranza di una cosa più grande, non si può fare.

Quella speranza rende possibile un gesto così, rende possibile anche accettare fino in fondo la libertà dell’uomo, anche quando la libertà dell’uomo è contro se stessa, è contro il Padre e quindi contro se stessa. «La misericordia come vera imitazione di Gesù è sguardo del Mistero su qualunque uomo, è l’eco della carità di Dio in noi. La misericordia è questa fatica, la fatica della libertà. Accettare la misericordia che Dio ha verso noi stessi è accettare di riconoscere la splendida vittoria che la misericordia è su tutti i limiti che troviamo negli altri». È accettare la splendida vittoria in atto, in atto o come possibilità che sta per accadere, e per tanti anni per il padre è stata una possibilità che ogni giorno poteva accadere. Una possibilità, il ritorno di quel figlio, che ogni giorno era lì per accadere. È “in atto” quando da lontano lo vide, gli corse incontro e, come Gesù (è uno dei brani poeticamente più belli) gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo, lo abbracciò e lo baciò. «La splendida vittoria che la misericordia è su tutti i limiti che troviamo negli altri».

«Io prego la Madonna e mi auguro, auguro a voi e a me…» Quante volte in questo testo Giussani dice «prego la Madonna, pregate la Madonna». «Io prego la Madonna e mi auguro, auguro a voi e a me che questo anno nuovo maturi in ognuno di noi la nostra fede – la fede -, la verità di queste parole. La Madonna ottenga questo miracolo anche per me». Una speranza così è un miracolo, perché la misericordia non è non riconoscere tutti i limiti che troviamo in noi e negli altri, non è un non guardare, è un’attesa piena di speranza ed è una possibilità continua di abbraccio. Non è un non guardare, non è un censurare qualcosa. «La Madonna ottenga questo miracolo anche per me. Tutto questo», questa misericordia, «sarebbe moltiplicare il grande miracolo di un benessere per tutti noi e anche per tutto il nostro popolo, con vantaggio anche per la vita del mondo, come conferma il profeta Isaia nel testo citato». Anche questo, tutto questo essere misericordiosi, sarebbe aumentare il benessere tra noi. Il benessere è una questione anche di soldi. Il benessere di un popolo è una questione di tutte le cose che rendono più facile quella “cara beltà” e più bella, perché è una cara beltà ricreata, quindi più stupenda, più bella e poi aggiunge: «Non è un programma, è un input, un impeto di volontà della nostra volontà buona». Non è un programma, è un input della nostra volontà buona, della nostra libertà. «Che – come abbiamo visto e meditato in quegli Esercizi del 1997 che sono la cosa più pensosa che ho nel mio curriculum – è, insomma, una intensità di vita, una intensità di certezza, e quindi una intensità di speranza». Un’intensità di certezza, di abbandono del bambino nelle braccia del papà e della mamma e quindi di speranza. Se non fosse certo, senza averne neppure il problema, delle braccia del papà e della mamma, non potrebbe sperare. «Una intensità di certezza, e quindi una intensità di speranza. E la parola speranza è la più difficile per l’uomo». Dice sant’Agostino una frase che tante volte mi ha suggerito almeno la preghiera per essere misericordioso: «In nulla re sic vincitur inimicus quam cum misericordes sumus». In nessuna cosa il nemico, il diavolo è così vinto come quando noi siamo misericordiosi. Ma il nemico non è solo il diavolo, è anche il nemico. Innanzitutto il diavolo, ma anche i nemici. In nessuna cosa il nemico, il diavolo è così vinto come quando noi siamo misericordiosi. Non c’è virtù più grande di questa. «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro»: non c’è virtù più grande di questa. Anche perché questa implica tutta la coscienza di essere noi più poveri peccatori di tutti. Quindi quando magari qualcuno anche con cattiveria te lo ricorda, fa la cosa più utile per te. Come certe volte questo è proprio vero, per grazia! Se magari non è utile per lui ricordare ad un altro con cattiveria che è un povero peccatore, ma quando te lo ricorda fa la cosa più utile. Non c’è cosa più utile di questa umiltà che fiorisce in misericordia. In misericordia: perché, se siamo così perdonati, è così semplice domandare questo perdono.

 

(testo non rivisto dall’autore)